C’è una cosa che mi spaventa moltissimo, che anzi dovrebbe spaventare tutti (ma non mi sembra sia così!). Per spiegarmi, faccio ricorso a un ricordo della mia infanzia. Avevo 6 anni, e frequentavo la seconda elementare. Sul sussidiario avevo da poco iniziato a leggere le storie di Roma antica: Romolo e Remo, Muzio Scevola, Menenio Agrippa… Mi affascinavano naturalmente anche le immagini colorate, e avevo imparato a riconoscere quindi un antico soldato romano. Quando nella chiesa di san Vitale a Fuorigrotta vidi la statua di uno di questi soldati, chiesi a mio padre come mai in chiesa ci fosse la statua di uno dei “cattivi” che avevano ucciso Gesù. Mio padre rispose lapidario e sottovoce (si stava pur sempre in chiesa): «Non devi mai fare di tutta l’erba un fascio!». Sul momento non capii, ma dopo mi spiegò: quel soldato era proprio san Vitale, era quindi uno dei “buoni”, non tutti i soldati romani erano “cattivi”. La conclusione era quella: non generalizzare, non fare – come diceva lui – di tutta l’erba un fascio. Ecco cosa mi ha sempre spaventato, oggi più di ieri: ignorare le specificità, riducendo la realtà a un vago e generico insieme indistinto. Io chiamo questo “generalizzare”.
Generalizzare è molto pericoloso, perché porta a ignorare il particolare in nome di una realtà – più comprensiva, più globale, ma anche più indifferenziata -, che è il generale. In altre parole, non si vede più la diversità, e soprattutto non si coglie questa diversità come ricchezza. Tutto viene così uniformato, appiattito, livellato: Pasolini parlava a questo proposito di “omologazione”, che rende tutto conforme a un modello imposto da altri. È come una foto sfocata, tutto appare indistinto, non si colgono i dettagli. Così facendo, però, la vita – che è il trionfo della differenza di forme, colori, suoni – viene annullata, uccisa, mortificata. Fare di tutta l’erba un fascio – cancellando ogni differenza, senza tenerne conto – è la radice del pensiero totalitario, perché ogni pensiero “diverso” diventa un nemico da colpire ed eliminare. Purtroppo il nostro parlare (e soprattutto il nostro pensare) è segnato sempre più dal fastidio dinanzi alla fatica di dover cogliere le differenze, di dover distinguere. Chiediamoci, ad esempio: quante volte parliamo in maniera generica di “neri”, “immigrati”, “rom”, “musulmani”, “ebrei”, e così via, senza prenderci la briga di differenziare, di far emergere diversità di atteggiamenti e di opinioni, di evidenziare molteplicità di comportamenti, e così via? Le parole sono importanti, non si possono usare in modo superficiale o errato, pena l’impossibilità di comprendere quel che dice l’altro. E dunque, bisogna fare attenzione a non parlare – e ripeto: soprattutto a non pensare – in modo totalitario. Come fare? La soluzione c’è, ed è sempre la stessa: il dialogo, e quindi in ultima analisi l’ascolto reciproco. La parola “dialogo” è composta in origine da due parole: il dià iniziale, che in greco significa “attraverso”, e poi logos, che significa parola. Il dialogo indica, cioè, una parola che passa attraverso le persone: in questo movimento, ognuno porta un suo contributo, e nello stesso tempo riceve il contributo degli altri. Alla fine, nel dialogo ogni contributo personale non sarà cancellato o ignorato, mortificato a favore di un’uniformità generica, ma concorre insieme a tutti gli altri a dare vita a una sintesi più completa e ricca. Per inciso: la “cattolicità” della Chiesa è di questo genere, perché rispetta le differenze e le porta alla convivialità (come direbbe don Tonino Bello), non del genere totalitario, in cui tutto deve essere uniforme e a ciò che è diverso viene negato il diritto di esistere (insomma, alla Chiesa del Vangelo non appartiene l’Inquisizione)! Certo, ripensando all’episodio della mia infanzia e all’insegnamento donatomi da mio padre, non si può fare a meno di sottolineare il ruolo educativo della Chiesa, soprattutto nei confronti di bambini e ragazzi, che dovrebbe formare a un pensiero e a un linguaggio “non totalitario”, rispettoso di ogni singola diversità.