Se non fosse divenuta nel Medioevo un covo di pirati, Cuma, forte della sua storia millenaria, con i suoi approdi, i suoi luoghi di culto, le sue possenti mura, avrebbe avuto una sorte diversa, espandendosi sul proprio territorio, e sarebbe oggi molto probabilmente la città più importante della Campania, gareggiando con Napoli.
Ma la storia andò diversamente. Divenuta ingestibile a causa della presenza di ladri e avventurieri che ne avevano fatto una sorta di rifugio per le loro continue scorribande, fu definitivamente rasa al suolo nel 1207 da un’armata di milizie napoletane, al comando di Goffredo di Montefuscolo. Cuma scomparve, finché nel XVII secolo ci furono i primi ritrovamenti archeologici. Tuttavia, tracce di questo suo ultimo splendore, sono rimaste tra le testimonianze letterarie preservate nelle biblioteche e in quelle che riaffiorano dal terreno. Partendo da queste, lo storico Gianfranco De Rossi prova a fare luce sul periodo tardo antico di Cuma, centro di spiritualità cristiana, ancora poco indagato ma non per questo meno affascinante. Ha di recente pubblicato un libro (Topografia cristiana dei Campi Flegrei – Cuma – Edizioni Esperia, 2020) che vuole essere il primo e il più possibile completo sguardo d’insieme su Cuma paleocristiana e medievale: storico, archeologico, epigrafico.
«L’archeologia cristiana e più in generale tardo antica e medievale dei Campi Flegrei non è stata studiata e valorizzata in passato quanto quella greca o romana, anche perché sovrastata e soffocata dalla ricchezza e importanza di quest’ultime. Invece è un periodo storico ricco e vitale, con molteplici evidenze archeologiche nel territorio. Il cristianesimo nei Campi Flegrei, poi, è un importante capitolo della storia della Chiesa: sappiamo tutti che a Puteoli vi è una delle più antiche comunità cristiane attestate negli Atti degli Apostoli, che accoglie Paolo nel suo viaggio verso Roma. La mia ricerca, che è il frutto di un dottorato presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, ha come protagonista Cuma. È un mio progetto continuare poi con Miseno e giungere infine a Pozzuoli, così da farne una trilogia… ci sto lavorando».
Lei è romano, come è nato il suo interesse verso i Campi Flegrei?
«Con i Campi Flegrei è stato amore a prima vista e inoltre ha anche contribuito la sfida di portare avanti un sentiero di ricerca poco battuto, come appunto quello dell’età paleocristiana. In 20 anni ho avuto la fortuna di essere aiutato da tante persone che qui vivono e amano il loro territorio, tra tutti vorrei ricordarne due che purtroppo non ci sono più: monsignor Angelo D’Ambrosio e l’archeologo Paolo Caputo».
Quali sono le testimonianze più antiche di cristianesimo a Cuma?
«Non sono tante, ma ci sono. Ed è singolare che in autori cristiani di II e III sec. d.C. la città sia sempre collegata alla Sibilla, figura che ha sempre caratterizzato e connotato nel mondo antico Cuma, insieme al culto per Apollo. Dal punto di vista archeologico sono invece più numerose di quanto si creda. La dinamica principale, che ho cercato di evidenziare e datare, è data dal fatto che le due principali chiese conosciute sono la trasformazione dei due principali templi pagani dell’acropoli, a segnare come per la Sibilla il passaggio di testimone tra culti pagani e culti cristiani. Un passaggio che non avviene in età molto antica però, ma in età bizantina o poco prima».
Il santo patrono di Cuma è il martire san Massimo…
«Insieme a Massimo a Cuma viene venerata Giuliana, che è una santa sicuramente legata alla fase bizantina, periodo storico fondamentale con la contrazione della città sulla rocca dell’Acropoli, la costruzione del castrum e, la creazione delle due chiese di cui oggi vediamo i resti. Su Massimo conosciamo poco, e forse la novità più importante nella mia ricerca è quella di aver riscoperto la più antica testimonianza archeologica del culto per il martire a Cuma».
Qual è questa novità?
«L’aver recuperato e valorizzato la testimonianza di un’epigrafe, purtroppo andata perduta, trovata appunto nelle rovine della chiesa di san Massimo negli scavi degli anni ’20 del secolo scorso. Con l’aiuto della mia collega Valentina Vegni, con metodologie ottiche e matematiche, abbiamo restituito graficamente l’unica foto che abbiamo di questa epigrafe, mettendo in evidenza le parole “martire” e Massimo”. La grande sorpresa poi è stata ritrovare un frammento della stessa epigrafe, in una sorta di scavo archeologico tra i reperti nei magazzini, che evidentemente fu dimenticato e quindi si è miracolosamente salvato dalla sparizione».
La comunità cristiana di Giugliano rivendica la sua fondazione da parte degli esuli da Cuma: una tradizione fondata?
«Pubblico anche le formelle scultoree di Giugliano che appunto si diceva provenissero da Cuma, e che purtroppo furono trafugate una trentina di anni fa. La tradizione ha certamente una parte di verità: l’abbandono di Cuma avvenne nel 1207 perché contesa tra Napoli e Aversa. Vinse Napoli, traslando e portando in città appunto le reliquie di Massimo e Giuliana. Ma gli aversani vollero continuare ad esercitare la proprietà nel territorio anche attraverso questa discendenza affermata da Giugliano, fondata pochi decenni prima».
Visitando gli scavi possiamo ammirare ancora le tracce del primo cristianesimo?
«Sì, e anche grazie alle ricerche e scavi che sta svolgendo l’Università “Luigi Vanvitelli” con l’equipe del prof. Carlo Rescigno. Il fonte battesimale nella chiesa di San Massimo, le numerose tracce di tombe nelle due chiese, nell’Antro della Sibilla e nella Crypta Romana. Qui nella Crypta ho voluto mettere in evidenza un ambiente, scavato nel tufo proprio sopra la galleria, e che io chiamo Basilica rupestre».
Antonio Cangiano