Riflessioni dell’arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia:
Io sono un prete, che per volontà del Santo Padre, indossa anche la veste di Vescovo, che è guida del suo gregge, testimone della verità del Vangelo e del tempo in cui comunicarlo, comprendendolo sempre di più nel profondo, per poterlo con coraggiosa coerenza dirlo a chi deve essere cercato nelle strade della vita, in quella Chiesa che deve uscire dalle sue sacrestie e farsi campo di lotta per la giustizia e la libertà degli esseri umani. Tutti. In particolare, coloro che soffrono l’ingiustizia e la mortificazione della libertà. Perché, come dice Francesco, gli uomini devono essere aiutati a liberarsi dalle catene anche qui, sulla terra, dono immenso di Dio. Come la vita che ha scolpito in tutto il Creato. Come prete e vescovo, pertanto, non posso tacere che quei venti del peggiore egoismo stanno soffiando sul nostro Paese. L’Italia è da tempo divisa in ogni campo. Il Covid, che sembrava, con la sua lunga scia di morti e le tante paure indotte, affratellarci, invece che più solidali e aperti ci ha fatti più individualisti e più chiusi. Siamo andati oltre gli spazi della nostra cultura. Stiamo andando oltre i confini del nostro duplice credo, quello cristiano, per i credenti, quello della Costituzione, per tutti. La Chiesa non può restare ferma. Non deve restare chiusa. Non deve accompagnarsi in questa divisione crescente. Preti e laici cristiani, religiosi e volenterosi, sono chiamati a fare ciò che ci si è preclusi nel timore di essere additata, la comunità dei credenti, come parte. Come forza politica, che si muove all’interno del recinto della politica, quale oggi viene concepita. Invece, devono, insieme e uniti, recuperare il coraggio della Politica secondo quella concezione del Santo Papa Paolo VI, che “ la Politica è la più alta forma di carità”.
Un’idea, questa, rafforzata dalla richiesta di Papa Francesco a impegnarci tutti, anche quali cristiani, all’impegno della Politica. Perché essa, mi permetto umilmente di aggiungere, non è, contrariamente a quanto avviene affermato, lo spazio delle divisioni e delle lotte cruente per la vittoria che registri la pesante sconfitta del nemico. Non è l’ambito nel quale prevale un interesse soltanto contro i molteplici, non è l’incontro di boxe in cui vince, non sempre lealmente, il più forte. La Politica è, attraverso le istituzioni, l’area aperta in cui si muove, sia pure nella dialettica accesa, tutto il contrario di questo, per realizzare il suo compito primario, la giustizia e il bene per tutti i cittadini.
Mi sono permesso di svolgere questo lungo pensiero, che spero non risulti contorto e complesso, per dire nuovamente il mio No alla legge della cosiddetta Autonomia Differenziata, approvata l’altro ieri dal Senato della Repubblica italiana. Lo sottolineo, oggi particolarmente, “Repubblica Democratica”, dove il sostantivo significa una cosa sola: unità del Paese nell’eguaglianza. Certamente non è il titolo formale della legge, quello assegnatole finora, ma “Autonomia Differenziata”, che sembra doversi leggere come intera parola e senza soluzione di fiato, per come ne sottende il significato, contiene nel suo corpo la divisione, intesa come volontà egoistica e come perverso progetto politico.
La volontà egoistica dei ricchi e dei territori ricchi, il progetto, antico di poco più di quarant’anni fa, di dividere l’Italia, separando il suo Nord, divenuto opulento con le braccia e l’intelligenza dei meridionali, da quel Sud impoverito dalla perdita di risorse, di forze fisiche e intellettuali, svuotato progressivamente di fondamentali sue ricchezze al posto delle quali sono arrivati a fiumi inganni e false promesse. I promotori e sostenitori di questa legge, incollano, con una certa superbia, questa “ vittoria” all’articolo della Costituzione, che attendeva dalla sua nascita di essere realizzato anche in quel punto in cui si dovrebbe completare l’assetto dello Stato, la promozione dell’autonomia dei territori. Mi permetto di eccepire, rinunciando ad entrare nel vivo di una polemica politica, che non mi piace tra l’altro in quanto duramente strumentale, che questa affermazione non è vera. Lo dice la stessa parola, “differenziata”. È evidente che essa significhi che l’autonomia non è uguale per tutte le regioni, che essa, appunto, si differenzia tra quelle forti, che con l’autonomia diventeranno più forti, dalle regioni deboli, che paradossalmente diventeranno più deboli. Insomma, si realizza, anche nelle istituzioni, quella dinamica apparentemente incontrollabile, che legittima l’ingiustizia più grave.
Quella che fa i pochi ricchi nel mondo più ricchi e il novanta per cento degli esseri umani più poveri. C’è anche un fatto che rende più grave, la decisione del Senato e delle forze politiche che l’hanno determinata. Questa trasformazione nel Paese avviene quando due debolezze si intrecciano pericolosamente, quella della politica e quella del Meridione. Basterebbe solo questo per accendere le menti più attente e i cuori più sensibili. E per comprendere meglio che quella parola accompagnata dal più breve articolo, incomprensibile per la povera gente, i Lep (anche questa a coprire la furbizia dei potenti), risulterà ingannevole anche quando lo Stato, che non ha più soldi, trovasse i tanti miliardi che servirebbero per attuarli. Le leggi non si fanno per il tempo politico di chi le vara. Si fanno per tempi lunghi, quelli che vanno a incontrare la vita dei nostri ragazzi. Aprono il futuro più che gestire il presente. La preoccupazione, pertanto, e che nel domani del compiersi pienamente questo malinteso articolo della Costituzione, la logica della differenziata manterrà le differenze, mentre si allargherà la forbice della duale separatezza del territorio nazionale e del sentire stesso il Paese. Occorre, invece, cambiare il nostro sguardo e quello delle istituzioni, invertendo la sua direzione. Il vero inizio del buon cambiamento si avrà quando tutti partiremo dal Sud. È uno sguardo culturale prima che politico. Muove dal cuore. Per una sola volta almeno restiamo qui, quelli che ci siamo e gli altri , che sono “ lontani”, scendano qui. Idealmente si diventi tutti insieme Sud per coglierne tutto il dolore e insieme tutta la sua grandezza. Il dolore, che porti alla riparazione dei torti subiti, pur non senza nostre colpe. La grandezza, per fare più ricca tutta l’Italia con il prezioso contributo, anche produttivamente economico, del Mezzogiorno. Io, prete, sono del Sud non solo perché sono nato in un piccolo paese che dalle sue colline guarda il mare e al mare nostro si porge con la generosità della nostra antica accoglienza. Sono del Sud, non solo perché ho lavorato sempre lì, studiato lì, servito il suo popolo lì. Sono del Sud, non solo perché, per volontà del Pontefice e per grazia di Dio, sono Vescovo nella più grande Città del Sud. Io sono del Sud perché sono Sud. E lo sono perché condivido tutto il suo palpitare d’anime, tutto il suo sentire umano, tutta la sua grande forza creativa. Tutta la sua tristezza e il suo dolore. E tutta la sua allegrezza nella gioia di vivere. Nell’Amore. Per tutto il mondo. Amore che si nutre anche della speranza, che questo mondo, così apparentemente difficile, potrà cambiare. A partire dal più nostro piccolo, che è il cortile della nostra vita. E dall’Italia, il giardino più bello.
Che il Vangelo e la Costituzione, in questo tempo complesso e difficile, che chiede la generosità e l’impegno politico di tutti, ci tolgano il sonno, rendano inquieti i nostri riposi, divengano un peso sulla nostra coscienza, fino a quando ogni riforma e ogni legge, anche la più piccola, non sia orientata al bene di tutti, iniziando dai più fragili, che un giorno scopriremo essere la cosa più preziosa che ci era stata data in dono dalla vita, la culla più adatta a gestare la nascita di una comunità rinnovata, fondata sulla solidarietà, sulla giustizia, sulla pace.
Testo completo delle riflessioni su: chiesadinapoli.it