Un vecchio articolo di giornale, pubblicato negli Usa nel 1927, ha riacceso di recente l’attenzione circa il mistero della sepoltura di Plinio il Vecchio, ammiraglio della flotta imperiale di stanza a Miseno. Il pioniere della scienza naturalista, al verificarsi della terrificante eruzione del Vesuvio del 79 d.C. che seppellì sotto una coltre di ceneri e lapilli le città di Pompei, Ercolano e Stabia, salpò dal porto di Miseno, mentre infuriava il catastrofico evento.
Poche righe scritte in inglese dal contenuto davvero interessante, che hanno spinto Elio Guardascione, storico flegreo, già operatore culturale al Comune di Bacoli, a scrivere un lungo post su Facebook, raccontando una scoperta archeologica avvenuta proprio a Bacoli, ma della quale se ne era persa la memoria, legata ai ricordi del nonno, confermata poi dall’articolo ritrovato. Una scoperta che potrebbe riaprire verosimilmente scenari inediti sulla sorte dell’ammiraglio scienziato. Ma procediamo con ordine.
Dalle fonti storiche, contenute in un’epistola indirizzata dal nipote Plinio il Giovane allo storico Tacito, sappiamo che il comandante Plinio «partiva per non fare più ritorno, mosso dalla sua brama di sapere e per portare aiuto alle popolazioni colpite, con le triremi da lui stesso comandate». In particolare, sulla tragica fine dello zio, aggiunge: «dopo tre giorni da che lo avevo visto per l’ultima volta, fu trovato intatto e vestito, che pareva dormisse. Era però morto e giaceva sotto una coltre di cenere». Poi, delle spoglie umane del grande comandante militare e scienziato, autore della Naturalis Historia, un vero e proprio trattato naturalistico in forma enciclopedica, non si sa più nulla. Verosimilmente, sepolto, come tanti sfortunati travolti dalla furia dell’eruzione.
Il nome di Plinio il Vecchio, ricompare solo molto più tardi, quando l’ingegnere Gennaro Matrone, originario di Boscotrecase, in un opuscolo edito nel 1903, racconta la scoperta, in un fondo di sua proprietà (nel quale fra 1899 e 1902, autofinanziandosi, aveva già effettuato tre campagne di scavi ), di ben 73 scheletri ritrovati nei pressi di un antico porticato portuale e di una lussuosa villa residenziale, entrambi affiorati presso la foce del fiume Sarno, di fronte all’attuale Scoglio di Rovigliano, lungo l’antico litorale di Stabiae.
Con dovizia di particolari, l’ingegnere si sofferma in particolare su una delle vittime: «Il 20 settembre 1900 furono ritrovati diversi scheletri sotto la lunga tettoia antistante i magazzini. Uno di essi comparso in una posizione più elevata, era disteso, con la testa addossata ad un pilastro. Era lo scheletro di un anziano, sdraiato sul dorso, al di sopra del lapillo. Portava intorno al collo un collare d’oro di 75 maglie formante tre giri, del peso di 400 grammi e sulle ossa di ciascun braccio una armilla d’oro rappresentante due vipere maschio e femmina in triplice giro; il peso dei due bracciali era di circa 665 grammi; alle dita della mano sinistra, aveva tre anelli d’oro massiccio, di cui uno pesante 36 grammi, rappresentante due serpenti affrontati; al suo fianco un gladio, con elsa d’avorio decorata a rilievo con molluschi e tre conchiglie marine, ed una brocca d’argilla». L’ingegnere conclude la relazione identificando lo scheletro di questo ricco uomo anziano con quello del celebre ammiraglio e naturalista Plinio il Vecchio, andato in soccorso dei pompeiani con le quadriremi della potente Flotta Pretoria di stanza a Miseno, e qui trovandovi la morte a 56 anni, sulla spiaggia vesuviana, stroncato dalle esalazioni di anidride carbonica e acido solfidrico.
La tesi di Matrone non mancò di sollevare polemiche e contestazioni, in particolare quella dall’archeologo Giuseppe Cosenza, convinto che un ammiraglio romano, impegnato in operazioni di soccorso, non potesse andare in giro ostentando monili come “una ballerina da avanspettacolo”, probabile che si trattasse di un ricco romano, che come tanti del suo rango, nel tentativo di sottrarsi al disastro dell’eruzione, tentava di scappare portandosi addosso i propri averi. In seguito, da un’osservazione più attenta degli sgargianti ornamenti d’oro indossati dall’uomo, altri studiosi suggerirono l’ipotesi che si trattasse di emblemi e onorificenze in uso in età imperiale per alte cariche militari, come appunto quella rivestita da Plinio il Vecchio.
L’ingegnere Matrone, tuttavia, di quella vittima illustre, ne conservò il cranio (nella foto), assieme ad altri oggetti ritrovati, che provvide a vendere sul mercato del collezionismo privato, di fatto disperdendoli. Diversi passaggi di mano, portarono però il teschio, ad essere analizzato da diversi studiosi, fino ai giorni nostri.
Di recente il reperto, è tornato sotto i riflettori grazie all’iniziativa del quotidiano La Stampa di Torino che ha proposto agli scienziati impegnati nell’analisi dei resti del celebre Uomo del Similaun, di studiare anche il probabile cranio di Plinio il Vecchio avvalendosi delle metodologie di ricerca avanzate. Una prova decisiva, infatti, potrebbe arrivare dallo studio degli isotopi radioattivi contenuti nell’acqua potabile che si depositano nei denti di una persona, durante i primi anni di vita. Un confronto tra questi e gli isotopi contenuti nelle acque del comasco, dove nacque Plinio, condurrebbe a maggiori certezze.
Ma torniamo all’articolo ritrovato da Guardascione, circa il ritrovamento di un’ importante tomba d’epoca romana scoperta a Bacoli nell’inverno del 1927, nei pressi del borgo di Casevecchie, sulla sponda orientale dell’attuale porto di Miseno, nei Campi Flegrei. Si tratta di un articolo in lingua inglese, di poche battute ma dal titolo eclatante «Ossa di Plinio il Vecchio trovate nella tomba vicino a Napoli», nel quale si afferma che: «Lo scheletro di Plinio il Vecchio, il famoso romano filosofo soldato, la cui grande opera “Storia naturale” è ancora letta, è stata trovata in una tomba ricoperta da una lastra di marmo a Bacoli vicino a Napoli. Un certo numero di contadini ha trovato la tomba di recente, quando, scavando in un campo, uno di loro colpisce la copertura di marmo con la sua vanga. Plinio il Vecchio andò incontro alla morte nella grande eruzione del Vesuvio che travolse le città di Pompei e di Stabia. Aveva attraversato di corsa il Golfo di Napoli per aiutare i suoi amici a Hercolaneum dal disastro ma era arrivato troppo tardi e, costretto a passare la notte a Stabiae, era morto a causa dei fumi velenosi che erano espirati dalla terra».
Dal contenuto dell’articolo, Guardascione, trova finalmente conferma ai ricordi del nonno.
«I racconti di mio nonno mi hanno sempre incuriosito e spinto a cercarne conferma. Mio nonno cumpa’ Ciccio, nato nel 1889, mi raccontava, spesso, fatti a lui accaduti. Devo confessare che, per molti casi, ho avuto il dubbio che si trattasse di storie inventate o in parte travisate, ma ho dovuto ricredermi. In particolare, mi raccontava, in un efficace dialetto, questa storia davvero affascinante:
«Quann’ ero giuvinott’, sotto i Casevecchie, mentre scavavan’ pe’ fà i fundazion’ ‘i ‘na casa, i fravecatur’ truvain’ ‘na stanza tutt’ fatt’ i marm’ janco. A centro ‘i chesta stanza, ce steva ‘na cascia di muort, pur’essa ‘i marmo e dint’ ce stev’ ‘nu scheletr’ ‘i nu surdat’ antico cu’ ‘na curazza tutta smangiata. Vicin’ a chist’ ‘u scheletro ce steve ‘na spada lucenta tutta d’or’. Int’ a poco tiemp’ a Bacul’ se spannett’ a voce e tutta a gente jett’ a verè chesta meraviglia».
«Il racconto l’ho sentito tante volte e ho sempre pensato che fosse frutto della fantasia di mio nonno, fino a quando, durante il lockdown di marzo 2020, mentre ero intento in altre ricerche, mi sono imbattuto in un articolo del 1927 pubblicato da un giornale americano, dove si parlava, appunto, del ritrovamento della Tomba di Plinio il Vecchio a Bacoli. La descrizione che si faceva nell’articolo era simile a quella che raccontava mio nonno. Dunque, diceva il vero! Ora, probabilmente non si doveva trattare della tomba di Plinio il Vecchio ma, quasi certamente, di un ufficiale di altissimo grado della flotta di Miseno. Il mistero sta nel fatto che non si conosce che fine abbia fatto tutto quanto fu ritrovato nella tomba. Ricordo che siamo ancora in periodo in cui il proprietario del terreno era anche proprietario di tutto quanto si poteva ritrovare sopra e sotto quel terreno ed è probabile che abbia venduto tutto. Solo nel 1939, infatti, fu approvata una legge che tutelava seriamente i rinvenimenti archeologici».