Al cinema Sophia di Pozzuoli è stato proiettato il documentario “Il Simbolo delle cose”. La pellicola nasce dalla collaborazione tra il Comune di Pozzuoli e la Fondazione Adriano Olivetti, nell’ambito del programma delineato dal Protocollo d’Intesa firmato nel marzo scorso. La convenzione mira ad informare e rendere fruibile alle generazioni future le conoscenze nate dall’esperienza olivettiana, essenziali per la formazione aziendale delle imprese italiane. Il film è una produzione corale e ha come fulcro la sinergia di sedici ragazzi, tutti studenti del liceo Virgilio di Pozzuoli. La regia è di Emiliano Mancuso, sebbene siano i giovani stessi a diventare dei simpatici film-makers, essendo dei mediatori tecnici di riprese, ma anche dei narratori circa la memoria storica. Il passato e i ricordi sono il flusso continuo del divenire errante di ogni fotogramma della trama filmica, per gli anziani operai della fabbrica è un costante “richiamare al cuore” frammenti di vita vissuta, impossibili da rivivere. La nostalgia di un tempo si unisce alla spensieratezza del mondo giovanile, che è attento a decifrare – tramite intervista – il mistero della complessità di Adriano Olivetti.
Perché è così importante un progetto cinematografico unificatore, fissando l’inizio della costruzione di un ponte generazionale tra vecchio e nuovo? È evidente riconoscere che l’essenza vera del cinema viene creata dal movimento generatore di presenza. Essa raffigura il “simbolo delle cose”, ed è imprescindibile per la costruzione della storia, delineando le nostre radici. Benché la memoria sia uno dei soggetti cardine del documentario, anche la bellezza è un elemento determinante. Le immagini del Comprensorio dell’ex Olivetti – attraverso il montaggio – sono accostate al mare del golfo di Pozzuoli. I liceali puteolani hanno capito l’importanza della bellezza come realtà salvatrice e il senso di appartenenza verso la loro Itaca.
Curatrice del documentario “Il Simbolo delle cose” è stata Maria Teresa Moccia Di Fraia, direttrice del Polo culturale Palazzo Toledo.
Come nasce la sua collaborazione con la Fondazione Olivetti?
«Adriano Olivetti ha dato molto al territorio di Pozzuoli; infatti, oltre ad essere stato un imprenditore, è stato un grande uomo di cultura. Ho conosciuto Laura Olivetti, l’ho accompagnata a distanza di tantissimi anni nel recupero dei suoi ricordi di Pozzuoli. Lei aveva partecipato all’inaugurazione della fabbrica da bambina e, ritornando, ha avuto un vero e proprio bagno emotivo. Dopo aver visitato il Rione Terra, ha provato quello che il padre aveva scoperto anni prima. Laura, attraverso la cultura, poteva così recuperare un pezzo della propria identità. Da qui nasce il desiderio di riportare l’eredità olivettiana sul tappeto della società flegrea, che ha dimenticato la coesistenza, la Comunità vera».
Il documentario è un tripudio di ricordi. Ogni pellicola, infatti è come una pila che si carica di presenze, volti amati e oggetti ammirati. I ricordi sono importanti?
«Il documentario spinge sulla spontaneità, sincerità e ingenuità del gruppo di lavoro. Ma bisogna soprattutto tener conto delle considerazioni dei giovani sul futuro e come malinconicamente sia vissuta l’eredità olivettiana. Le testimonianze hanno smosso la curiosità, mentre la nostalgia delle condizioni di lavoro ha fatto sì che si creasse maggiore interesse, soprattutto se si considera la precarietà dell’oggi. L’eredità di Olivetti, quindi, travalica lo stile contemporaneo».
Com’è stato ideato il soggetto del film?
«Il soggetto, le strategie, la partenza dipendono dalla Fondazione Adriano Olivetti. L’intesa era di sperimentare attraverso le scuole un’idea laboratoriale creando un prodotto tramite tecnologie semplici. Il regista Mancuso è partito dal documentario di Nelo Risi, il quale filmò la vita di un operaio olivettiano dall’alba fino alla sera. Si voleva creare un confronto tra la Pozzuoli degli anni Cinquanta ed oggi. Com’è cambiata la città rispetto al passato?».
Cosa rappresenta la figura di Adriano Olivetti nel panorama imprenditoriale?
«Adriano Olivetti ha rappresentato una parentesi sconcertante nel mondo imprenditoriale italiano. È nato in un ambiente di intellettuali, il che oggi è una rarità. Mi piace soprattutto l’impostazione che sindacalmente ha attuato sulle condizioni lavorative, in particolare nei confronti delle donne: potevano iscrivere i figli al nido della fabbrica, la maternità durava un anno intero e portavano i figli in vacanza. Pensare al servizio scuola per gli operai insieme alla biblioteca, è una rivoluzione culturale mai attuata prima. Organizzare degli eventi con i maggiori intellettuali del tempo, ed esportare il designer Made in Italy nel mondo, sono azioni visionarie senza pari».
Federica Nerini