«Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca». Penso che sia necessario rimettere a fuoco queste parole di papa Francesco il quale, più volte e in circostanze diverse, ha invitato tutti, popolo di Dio e ministri ordinati, a trasformare il nostro modo di vivere, di relazionarci, di comunicare ed elaborare il pensiero, di comprendere e di vivere la fede. Stiamo vivendo, come comunità diocesana, il cammino sinodale delle Chiese in Italia. Un’esperienza bella e certamente entusiasmante, ma altrettanto faticosa perché, come già scriveva il vescovo Gennaro nell’Introduzione all’aggiornamento del Direttorio pastorale, «la sinodalità richiede uscita da sé, ascolto profondo e rispetto dell’altro, franchezza e umiltà, apertura al “nuovo”. La chiusura della mente e del cuore, il credere di essere i “possessori” della verità, il pensare che “tanto niente cambia” sono i primi ostacoli al camminare insieme, che richiede spiritualità evangelica e appartenenza ecclesiale». Dalle consultazioni foraniali sono emerse diverse sfide pastorali (la centralità della parola di Dio, la famiglia come soggetto attivo di evangelizzazione, l’esigenza di una formazione permanente, etc.), che vanno colte con le virtù del discernimento e della parresia. Di esse, come comunità cristiana e diocesana, non possiamo non tenerne conto. Tuttavia, nonostante la pluralità delle sfide offerte dal tempo presente, ci sembra di cogliere un’esigenza condivisa, un filo conduttore: il superamento dell’individualismo e di una sorta di autoreferenzialità, in cui spesso le singole pastorali diocesane e le nostre comunità parrocchiali restano imprigionate, per aprirci invece ed allenarci a quella mistica evangelica che papa Francesco in “Veritatis gaudium” chiama la “mistica del noi”. E’ la capacità di vivere e lavorare insieme per uno stesso fine, di percorrere la stessa Via (cf Gv 14,6), «di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (EG 87). È la capacità di cercare insieme la strada, il metodo, radicati nella franchezza e nella freschezza della fiducia reciproca, senza azzerare le specificità di ciascuno, ma coltivare, come spesso amava ripeteva don Tonino Bello, la “convivialità delle differenze”. Mantenere, cioè, le proprie specificità e saperle indirizzare insieme verso una Via comune. Occorre perciò ripartire dall’arte di “farsi uno” avendo dinanzi la consapevolezza che il cammino va fatto insieme, a piccoli passi, a tappe successive, integrando le competenze di ciascuno. C’è però un rischio che è sempre in agguato: è la pretesa che siano gli altri a farsi uno con noi. Per superare questo scoglio relazionale occorre flessibilità, farsi tutto a tutti, saper perdere, sapere attendere, dire e fare con prudenza e con pazienza. Tutto ciò significa un modo di lavorare e organizzare il pensiero che non imponga la propria idea agli altri, ma che sia capace di dialogo e di capire come insieme si può accogliere il pensare di Cristo: il pensiero di Cristo tra noi.
Alessandro Scotto