Coperti da mascherine restano occhi e cuore, sperando “che non si torni alla vita di prima”





Gradualmente stiamo uscendo (lo spero) da un’esperienza epocale, in cui anche la preghiera più intima del cristianesimo, l’Eucarestia, è stata sospesa o comunque ha continuato a passare, attraverso il web o ad essere vissuta in modo diversa nell’intimità delle case. Abbiamo vissuto e continuiamo a vivere il dramma di questa pandemia, della perdita di tante persone… una generazione di anziani (e non solo) andata via. Oggi penso al dolore di chi ha vissuto sulla propria pelle questa tremenda tempesta, senza neppure poter dare l’ultimo saluto o essere vicino alla persona cara; penso all’angoscia di chi ha perso il lavoro e fatica ad arrivare a fine mese; il dramma di chi ha tenuto chiuso un’attività per tutto questo tempo e non sa come e se riaprirà; penso ai ragazzi e i giovani che non hanno potuto seguire lezioni regolari a scuola; penso alla ripresa economica da quello che è un tempo di impoverimento generale.

Tutti desideriamo che si ritorni alla vita di prima, alla normalità. Oggi, alla luce di questa solennità dell’Ascensione, vi chiedo (ed io con voi) di fermarci un istante e riflettere. Tornare alla vita di prima? Alla Chiesa di prima? Ai soliti ritmi sfrenati e senza senso che riempivano le giornate e le liturgie, lasciando il vuoto dentro?

No! Spero proprio che non si torni alla vita di prima. Questo tempo di isolamento dal quale stiamo gradualmente uscendo, non può non averci parlato, interrogato. L’Ascensione ci chiama ad inaugurare un tempo nuovo, a sognare cose nuove e possibili. In questo isolamento che abbiamo vissuto, ci siamo resi conto che le relazioni ci mancano come l’aria che respiriamo. Gli abbracci, il vedersi, lo stringersi la mano, tutte cose scontate fino a quando un minuscolo virus ce lo ha negato. Anche i rapporti parentali, che spesso si faceva fatica a sostenere, anche quelli ci sono mancati. Dobbiamo ripartire da qui! Dalla comprensione che nulla più deve essere fatto per scontato. Il mondo è una comunità e io ne faccio parte perché da soli non si va da nessuna parte, perchè non ci si salva da soli (e lo abbiamo capito bene!). Gli altri per me sono un bene prezioso del quale non posso fare a meno. La mia nazione, la mia città, il mio quartiere, la mia comunità sono per me vitali (mi danno vita, mi fanno vivo!). Questo, mi auguro, lo abbiamo capito. E mi auguro anche che nessuno fra noi lo dimentichi! Non sprechiamo questa grande opportunità. È il Signore che ce lo chiede. “Andate!” Ripartite da qui. Ripartite dall’essenziale, dalla scoperta dell’altro come dono, dalla necessità di essere solidali, dalle relazioni vere e non di circostanza, dal desiderio dell’incontro, dell’abbraccio, del rispetto delle creature e del creato. “Andate!”.

Abbiamo ripreso a celebrare, vero… ma questo non basta! Se siamo ritornati col proposito di ritornare a fare ciò che facevamo, allora è meglio richiuderli questi edifici! Abbiamo bisogno di una Chiesa che sia segno profetico, che parli con la vita, che si nutre della liturgia. Non abbiamo bisogno di comunità che pensino, programmino, teorizzino, discutano. Facendo cose anche tanto buone e ben fatte ma prive di senso… anzi, prive del senso che è Gesù! Non so voi ma io non voglio più una Chiesa che si limiti a dire, a pensare cosa si deve fare, quale incenso utilizzare, dimenticando magari la cura e le relazioni all’interno e all’esterno. Dio solo sa quanto è stato difficile in questo tempo “prendersi cura”, provare come comunità a farsi prossimo per garantire l’essenziale almeno a tavola a che si è trovato all’improvviso senza lavoro e figli da “sfamare”. C’è la teoria della Carità (e per quella son bravo perfino io), c’è poi la prassi della carità che è altra cosa, che non si ferma, che si potenzia proprio quando è necessario! E grazie a Dio che si è manifestato nella provvidenza di tanti che hanno portato e di altrettanto tanti che hanno aiutato (permettetemi un grazie di cuore ai nostri giovani). Questa prossimità non è venuta mai meno. Oggi dobbiamo ripartire dal luogo delle origini, dove tutto è iniziato… e per noi è questa comunità, per riscoprire nuovi “itinerari del cuore”.

Abbiamo bisogno di “generare” (far rinascere) la nostra parrocchia come luogo dove sia bello potersi trovare e dire: “Qui mi sento come a casa!”. Questa riapertura alla celebrazione comunitaria che tanto abbiamo desiderato sia un “nutrirsi per…”, altrimenti ritorniamo a sprecare questo Sacro cibo che nutre! In queste celebrazioni continueremo a non scambiarci il segno della pace e anche questo ci farà bene, se vogliamo: è l’occasione buona per dare senso e sapore ad un gesto che non aveva più significato, soprattutto quando taluni provavano a sedersi qua o là. per non stare vicino a questo o quello ed evitare così di dare il segno di pace. Non è forse vero?

Ora, coperti dalle mascherine, e privati della stretta di mano, ci restano gli occhi e il cuore! Con quelli proveremo a fare la pace, quella vera! Siamo ritornati nella nostra Galilea, non per riprendere la “normalità di prima”, ma per sperare che l’eucarestia sia più di prima un incontro speciale, un incontro a-normale, fuori dal quotidiano, che getta una santa inquietudine nel cuore e un desiderio di vivere e di annunciare la pace, in casa e fuori.

Mario Russo

Parroco Chiesa Sacro Cuore di Gesù ai Gerolomini – Direttore Ufficio diocesano per la pastorale giovanile

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