Per ricordare chi sia stato don Peppino Diana, forse è bene cominciare dalla fine. Il 21 marzo 1994, primo giorno di primavera, centinaia di lenzuola bianche pendevano ai balconi di Casal di Principe. E ventimila persone seguivano in lacrime il feretro di un giovane sacerdote, ucciso due giorni prima, mentre si preparava alla celebrazione del mattino. Quel giorno Casale gridò alto e disperato un “No” che ne avrebbe segnato la storia recente. Nessuna di quelle persone che piangevano disperatamente poteva sapere che dal sangue di un uomo giusto sarebbe nata la grande volontà di un riscatto che trent’anni dopo si vede, si sente, si tocca.
Non è un Paese giusto quello che ha bisogno di martiri per affermare la sua dignità. E fu lo stesso don Peppino a denunciarlo con coraggio mesi prima di morire. «Non in una Repubblica democratica ci sembra di vivere – disse – ma in un regime dominato dalle armi. Diciamo no, vi prego, a questa dittatura armata». E non si limitò alla parola. In un posto dove mancava tutto (cinema, teatri, piazze sicure, biblioteche) e dove il cartello “benvenuti in paese” era crivellato dai proiettili, questo giovane uomo organizzò piccole manifestazioni sportive e un coeso gruppo di scout. Fece ciò che la criminalità teme di più: comunità, libertà, vita. Sì, vita. Perché il profilo di Peppino Diana non è quello dell’eroe tormentato che va incontro alla morte: l’eroismo è un destino, non una scelta. È invece la meravigliosa testimonianza del Bene che resiste alla prepotenza, al male forte con i deboli, con gli inermi. Quel male che lui sconfisse con la più efficace delle risposte: la Parola.
Con don Peppe si parlava di tutto: Ascoltare era un comandamento, per lui: ha sempre affermato chi lo conobbe di persona. Mostrava ai cittadini come spezzare le catene del fragore delle armi, della morte. Lo faceva con i sorrisi, l’aria buona, il dirompente benessere di chi sta insieme divertendosi. Senza timore. Non potevano permetterlo, i boss che tenevano in pugno intere popolazioni sotto la minaccia del ferro e del fuoco. E condannarono a morte un uomo che li avrebbe sconfitti con la forza della vita.
Il 19 marzo 2023, accogliendo per la prima volta un presidente della Repubblica, una studentessa disse: «Signor Presidente, aiutateci a liberarci dai pregiudizi. A sentirci orgogliosi di abitare questi territori». «Non dimenticate, ragazzi – rispose Sergio Mattarella – e siatene sempre fieri: Casal di Principe non è più il regno dei clan. È il paese di don Peppino Diana». Non esiste forse sintesi migliore per omaggiare un giovane uomo, testimone di una Chiesa che resiste; che al piombo e al fuoco dell’Inferno rispose con l’acqua fresca e limpida della resistenza civile e religiosa.
Stefano Ciccarelli
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