Alcuni anni orsono, Dut Biar Mabor – ragazzone di 216 cm in forza alla GeVi Napoli,
fresca vincitrice della Coppa Italia di basket – viveva la propria fanciullezza
costantemente minacciato nel Sud Sudan, uno Stato che ha pagato con 2 milioni di
vittime la propria indipendenza e dove l’pac39;80% degli abitanti vive tra stenti e senza
acqua potabile. Finché un giorno, poco più che adolescente, grazie a uno zio, è
arrivato a Roma, è stato accolto dalla Stella Azzurra – squadra di pallacanestro – è
andato a scuola e si è affermato. Nato nel 2001 in Sudan, Dut si era trasferito nel
Sud del Paese dai parenti ed è lì che le cose sono precipitate. Lo ha raccontato lui
stesso, qualche anno fa, a “The Owl Post” (piattaforma web gestita da atleti): «È
scoppiata la guerra. Non lontana: nei telegiornali. Ma vicina: nelle strade. Sui
marciapiedi e nelle scuole. E io non la capivo fino in fondo ma percepivo che quello
che c’era intorno era diverso. Molto diverso. Diverso in peggio». Immaginate cosa
significhi, passare gli anni più spensierati della vita lontano dai propri cari e
minacciato dagli spari: «Era il 2013, io avevo 12 anni e il mio quartiere si era
riempito con soldati armati di pistole che camminavano per le strade a qualunque
ora. Non erano solo i soldati a portarsi le armi addosso per le vie della città e a
sparare al minimo pretesto: lo faceva chiunque. Uscire di casa diventava ogni giorno
più pericoloso. A me piaceva la mia vita prima della guerra. Amavo stare in famiglia,
uscire a giocare. Di colpo nulla di tutto questo era più reale. Tutto sparito in un
attimo. C’erano solo la paura, le privazioni ed il rumore degli spari in lontananza». E
ancora: «Da quel giorno nulla è stato più come prima. Non potevo più andare a
scuola. Non potevo più uscire di casa. Non sapevo neppure più cosa potevo sognare
per il mio futuro, come fa ogni bambino, perché la mia unica preoccupazione la sera
era pregare che ogni componente della mia famiglia fosse tornato nel proprio letto.
Poi nel 2016 ho scoperto il basket. Stare in campo era una liberazione. Era come
mettere dentro il ghiaccio il resto del Mondo e vedere solo la palla muoversi ed
infilarsi nel canestro mentre tutto era immobile. Guerra compresa». E poi
quell’aereo verso l’Italia.
«La pace non è una cosa scontata, non per tutti almeno. E credo che sia importante
ricordarselo, soprattutto nei giorni in cui si può stare di più con i propri cari»
concludeva un saggio, seppur giovanissimo atleta che, secondo qualcuno, avremmo
dovuto, comunque, aiutare a casa sua.