La Primavera di una volta. Pozzuoli, il ricordo di cibi, suoni, persone e… polli





Della mia lunga infanzia, trascorsa a Villa Maria nell’edificio in stile Liberty di via
Miliscola, ricordo con nostalgia i giorni che precedono la Pasqua.
Strada e marciapiedi sono invasi da carrette (cariche di botti, “sporte” e “spaselle”)
che gravitano attorno al Mercato ortofrutticolo all’ingrosso, particolarmente attivo
nella Settimana Santa. Per questa stessa strada non di rado riconosco avanzare e
lanciare richiami una donna che porta, ben in vista, un grosso uovo di cioccolata.
Non lo vende, o meglio non lo vende direttamente; vende novanta numeri tra cui il
fortunato primo estratto che sabato uscirà sulla ruota di Napoli. La donna grossa e
vociante è ben conosciuta e le sue lotterie sono settimanali, abbinate ad
avvenimenti sacri e profani del calendario. Parla molto, alcuni dicono essere una
maliarda, i più la conoscono come la “nciucessa”.
Doverose le visite alla “puteka” di “donna Emilia a’ quartaiola”, gran bazar
alimentare. La proprietaria è sempre dietro il grosso bancone e il nipote, Santino, in
giro per il negozio a prendere, staccare, misurare, pesare. Ha un fisico atletico
associato ad un distinto portamento da vero “gentleman”. Santino, sicuro nella sua
prestanza, fa la corte a tutte le signorine ed è galante con tutte le signore. Nel
contempo è attento a tutto ciò che la zia gli ordina ed è altrettanto attento al
marciapiede dove sono allineati in bella vista i sacchi pieni di “sciuscelle”, molto
ricercate da bande di scugnizzi.
Frutta e verdura son raccolte nel giardino dove si allevano anche i polli che, con
l’allungarsi delle giornate, già tardano a ritirarsi nell’apposito recinto creato per loro
in un casotto. Il latte lo si compra direttamente nel fondo da Vittorio “o vaccaro”, e il
vino che si consuma giornalmente è un ottimo “aglianico” produzione propria.
Il giovedì sera si recuperano i vassoi in cui si è seminato e fatto germogliare il grano
e, aggravati del loro peso, si esce per raggiungere l’altare della vicina chiesetta,
dedicata a San Marco, che per la celebrazione viene con essi addobbato. Una volta
esposti diventano motivo di competizione per i donanti che poi, con orgoglio,
allungano i passi per partecipare allo “struscio” cittadino.
Mio padre, che a Natale si concede il lusso di acquistare varie bottigliette con le
“essenze” per preparare liquori in casa, per la Pasqua si limita al solo rosolio.
Ma la settimana di Pasqua è un supplizio per i golosi; nella spaziosa e calda cucina,
accanto al focolare in muratura, le mani, anche di noi bambini, impastano e
ammassano farina. Si fanno pizze piene, pastiere, casatielli; ma non si può
assaggiare nulla di tutto ciò, assolutamente nulla fino alla mezzanotte del sabato.
Siamo in “Quaresima” e con lo stesso nome chiamiamo la bambola di pezza,
somigliante a una strega, appesa il mercoledì delle Ceneri all’arcata centrale del
porticato di Villa Maria. Un’usanza antica, arcaica, che ha una origine legata a culti                                                pagani. È un fantoccio di donna vestito di bianco e di nero, i colori del lutto, e in
basso al di sotto del lungo vestito una patata trattenuta da un fil di ferro che pende
dalla struttura in legno del pupazzo. In questa patata sono state infilate in cerchio
sette penne di gallina, sei nere ed una bianca; con la morte di Carnevale il martedì
grasso iniziano, in attesa della Pasqua, le sette settimane di Quaresima.
Ogni domenica quaresimale, dopo aver partecipato alla Santa Messa e prima del
pranzo, da questa simbolica bambola, viene estirpata una penna nera. L’ultima
penna, quella bianca, è sfilata la sera del Sabato Santo ed essa indica la fine
dell’astinenza e del tempo quaresimale.
Durante le sette settimane non si mangiano carne e dolci, non ci si deve pettinare i
capelli, non si spazza il pavimento, non si aggiustano i letti, non si cuce e non si
cucina in modo troppo elaborato; mi raccomandavano pure di non tagliare le
unghie.
Io, negli anni Cinquanta, ero piccino e il significato di tutte queste simbologie l’ho
capito dopo; per me era solo un gioco cui, finalmente, partecipavo insieme agli
adulti.
Serve una lunga scala per raggiungere il chiodo al centro dell’arco e appendere il
feticcio; a tale scopo se ne usa una speciale di legno, quella stretta che i contadini
utilizzano per penetrare in alto tra il fogliame degli alberi, in particolare sui fichi.
Un giovane nipote dei coloni esegue questa operazione e io guardo con invidia chi
compie quell’atto, per me ardimentoso. Sogno il giorno in cui potrò salire e sfiorare
quel trofeo sotto l’attento sguardo degli abitanti della Villa ed anche del vicinato.
L’operazione si ripete ogni domenica, il giovane contadino sale in cima ai gradini,
toglie una penna, ridiscende e, una volta a terra, la penna rimossa è bruciata in una
“buatta” mentre noi altri, in cerchio, recitiamo delle preghiere e la vecchia Rusina
mormora indecifrabili parole. Non capisco se siano orazioni o parole magiche;
ancora me ne resta il dubbio.
La bambolina resta poi sola a dondolare al minimo spirare del vento che certo non
manca in quei mesi di febbraio e marzo. Non nascondo che a volte, di sera e al buio,
quel suo lento ciondolare incute un sinistro timore; nella mia giovane fantasia
l’associo all’immagine di una strega penzolante da una forca. Nelle serate
quaresimali evito di restare solo nel cortile e quando debbo attraversarlo lo sguardo
mai si solleva fin sotto quell’arco dal quale, solitamente, pendono solo innocui
“melloni” impagliati e “piennoli” di pomodori.
Finalmente giunge il Sabato Santo; dopo la penna bianca è tirato giù anche il
fantoccio ed il tutto è bruciato così come nelle chiese brucia il Sacro Fuoco Santo,
preludio allo scioglimento della Gloria, alla Pasqua, alla fine di ogni astinenza e
all’inizio di un nuovo periodo che si spera prospero e fecondo.

Giuseppe Peluso





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