Al 31 dicembre 2019 i migranti presenti in Italia sono 5.306.548 persone, perlopiù residenti da molti anni nel nostro Paese e che hanno una incidenza sulla popolazione autoctona dell’8,8%. Tuttavia il trend migratorio – in Italia – è in decrescita da alcuni anni a questa parte: la bassa qualità del capitale sociale italico, probabilmente, orienta i migranti ad altre scelte di destinazione, per garantire un futuro migliore per sé e per i propri figli.
Nei dodici mesi intercorsi tra il 2018 ed il 2019, l’incremento della presenza migrante è stato di soli 47mila residenti, elemento che va collegato alla decrescità del tasso di natalità tra le comunità d’immigrati. Sono risultate in calo anche le acquisizioni di cittadinanza, passate dalle 146mila del 2017 alle 127mila del 2019.
Elemento viceversa di stabilità è la constatazione che ben il 62,3% dei permessi di soggiorno è appannaggio di migranti soggiornanti di lungo periodo; pochi – al di là dei roboanti paroloni usati da mass media e da alcuni politici – i permessi di soggiorno collegati all’asilo politico ed alla protezione internazionale: appena il 5,7%. Flessione anche nei permessi di soggiorno per motivi di studio che, statisticamente, rappresentano solo l’1,5% del totale.
Tra le nazionalità più numerose spiccano quelle dei cittadini originari della Romania, dell’Albania, del Marocco, della Cina e dell’India.
La componente minorile del fenomeno migratorio ammonta a circa 860mila individui, ovvero al 16,2% del totale; all’incirca il 64,4% è nato in Italia, ma non ne possiede la cittadinanza.
Minima l’incidenza della pandemia da Covid 19 sulla popolazione migrante: anzi, in qualche caso (vedi Napoli) il basso numero di positivi (nella comunità cinese, durante la seconda ondata di Covid, appena 5 persone su una comunità stimata in oltre 5mila individui) ha fatto nascere il sospetto che i cittadini cinesi abbiano ricevuto dalla madrepatria i vaccini anti Covid. Tuttavia, la Dad ha generato non pochi problemi agli alunni di origine straniera: la realtà, soprattutto nel nostro territorio, ci dice che con la didattica a distanza non tutti hanno le medesime possibilità. Infatti già la disponibilità di un pc o di un tablet non è scontata per tutti gli studenti, ma soprattutto non è scontata per tutti (in particolare per i migranti) avere una connessione a banda larga: secondo una recente statistica il 34% delle famiglie non la possiede.
Il provvedimento di regolarizzazione varato durante il primo lockdown, per far fronte alla mancanza di manodopera straniera, ha consentito la presentazione di appena 207.542 domande, delle quali l’85% nel settore della collaborazione domestica mentre il restante 15% si è variamente distribuito per altri comparti, in primo luogo l’agricoltura.
I migranti complessivamente impiegati, in Italia, sono 2.505.000 (47,2% del totale), che rappresentano il 10,7% degli occupati totali.
In calo le denunce per reati commessi da cittadini migranti, mentre da parte degli organismi di pubblica sicurezza si stima che i migranti irregolari arrivino – al massimo – a 650mila persone. Nel 2019 i rimpatri sono stati 7.054, i respingimenti 17.596, le espulsioni 23.406.
Passando dal generale al particolare, ovvero analizzando i dati che riguardano la provincia di Napoli (89.573 migranti), possiamo osservare come i motivi prevalenti di soggiorno siano il lavoro ed il ricongiungimento familiare, seguiti dalle richieste di asilo politico. Ancora più interessanti le provenienze geografiche di detti migranti: Ucraina (23,6%), Sri Lanka (14,4%), Bangladesh (8,3%), Cina (7,9%), Marocco (5,8%), Pakistan (4,7%), India (2,4%), Nigeria (2,3%), Altri (23,9%).
Fin qui le analisi dei dati. Ci siano consentite, ora, alcune osservazioni su questo annus horribilis 2020 che ha inciso, in profondità, anche sulla qualità della vita dei cittadini migranti. Non pochi tra questi ultimi sono coloro che sbarcavano il lunario lavorando a giornata, ovvero racimolando – con notevole difficoltà – quei 20/30 euro al giorno necessari per la sopravvivenza. Ebbene il lockdown conseguente alla pandemia ha messo in ginocchio questa economia informale le cui conseguenze si sono notate anche tra gli utenti dei centri ascolto delle Caritas diocesane. Si stima che nei tre mesi di cui sopra la Caritas abbia sostenuto – in varie forme – 445.585 persone delle quali il 38,4% erano cittadini di origine straniera. Non solo: anche tra i 129.434 “nuovi poveri” che, per la prima volta, si sono rivolti alla rete Caritas i migranti hanno rappresentato il 32,9%.
Numeri importanti, che ci aiutano a comprendere l’impatto devastante che la pandemia da Covid 19 ha avuto anche sulla popolazione migrante. Purtroppo, duole rilevare il sempre crescente numero di questuanti ed elemosinanti di origine straniera, addirittura più numerosi degli italiani, che testimoniano – eloquentemente – il fallimento dei progetti migratori e l’incapacità del Paese Italia di servirsi a fondo (e bene…) di questo capitale umano.
Ovviamente, urgerebbero modifiche legislative nel corpus giuridico che regolamenta l’immigrazione. In primo luogo una revisione della legge sull’acquisizione della cittadinanza, ormai imprescindibile, tenuto conto che gran parte dei futuri italiani saranno di origine straniera.
Le forme di «integrazione subalterna» degli immigrati sono da collegarsi sia alle opportunità esistenti nel mercato del lavoro, sia, soprattutto, alle norme che disciplinano la permanenza degli stranieri presenti sul territorio nazionale. A restrizioni di ordine normativo, vanno ad aggiungersi, nella vita quotidiana, discriminazioni di vario tipo che riguardano, massicciamente, i cittadini migranti. In effetti, il legislatore in questi anni sembra non sia stato in grado di mettere in atto politiche migratorie inclusive, come condizioni preliminari per attivare percorsi di integrazione non subalterni nella società italiana.
Due indicatori, forse più di altri, danno conto di quanto la struttura istituzionale di una società sia aperta all’accoglienza di nuove popolazioni. Innanzitutto, la capacità di includere su base egualitaria gli stranieri che hanno deciso di vivere e stabilirsi in Italia; secondariamente, l’esistenza di percorsi di mobilità sociale capaci di permettere, a chi ne abbia volontà e capacità, di acquisire un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Sotto questo profilo, possiamo dire, senza timore di esagerare, che la società italiana è sostanzialmente chiusa e, al più, prevede modalità di incorporazione subalterna. Come detto in precedenza, l’inserimento lavorativo degli immigrati si realizza, nella gran parte dei casi, attraverso lo svolgimento di mansioni di basso profilo, poco qualificate ed indesiderate dalla popolazione autoctona. Certo non perché vi sia una corrispondenza precisa fra competenze possedute dalla popolazione immigrata e lavori svolti, quanto in ragione del fatto che altre opportunità professionali sono difficilmente accessibili agli stranieri, anche se vivono in Italia da molti anni e parlano ottimamente la lingua.
Solo degli spunti di riflessione ma che dovrebbero metterci in grado di affermare che occorre conoscere per comprendere: proprio come il titolo del XXIX Rapporto Immigrazione, proprio quello che, da anni, come Caritas ci sforziamo di fare e non ci stancheremo di fare in futuro.
Giancamillo Trani
* Responsabile Immigrazione Caritas Campania