E’ un argomento spesso lontano dall’immaginario collettivo, un mondo da cui, generalmente, la società civile prende le distanze, ma con la lettura del libro di Antonio Mattone “E adesso la palla passa a me – malavita, solitudine e riscatto nel carcere” quelle distanze si azzerano e – come un pugno nello stomaco – si arriva ad una rapida presa di coscienza di ciò che è il carcere: l’autore, infatti, accompagna per mano chi legge verso un’unica conclusione, una detenzione “civile” può e deve rappresentare il punto di partenza per una società migliore poiché solo lavorando sulle condizioni effettive dei detenuti si può puntare al loro recupero.
E’ impressionante il numero dei suicidi che avviene annualmente nelle carceri italiane e notevoli sono le problematiche sanitarie per via dei pochissimi operatori presenti. Diverse sono le forme di disagio psichico tra i detenuti: la chiusura senza alternativa degli ospedali psichiatrici giudiziari, tra l’altro, ha procurato ad un sistema penitenziario già carente, un danno incalcolabile. Tutto questo, sapientemente esposto nel libro, dà una foto istantanea dell’attuale sistema carcerario nazionale. Nello specifico, in Campania, per una capienza stimata di circa seimila, di detenuti se ne contano oltre settemila, con un trend in costante aumento. A fronte di questa crescita esponenziale non aumenta, però, il numero degli operatori: educatori, assistenti sociali, medici, psicologi sono un numero talmente irrisorio che il sistema rischia un nuovo richiamo da parte della Corte europea dei Diritti Umani di Strasburgo per la violazione dei diritti dei detenuti.
Mattone inizia dalla genesi del primo carcere napoletano – Poggioreale, il più sovraffollato d’Europa – assestando il primo colpo bello duro: un luogo dalla storia a tratti nauseabonda, con una narrazione quasi asfissiante, che parte dalle origini del penitenziario, tocca l’apice con la morte di Giuseppe Salvia, vicedirettore ucciso per aver osato perquisire Cutolo; e culmina con il racconto della repressione più dura, negli anni ’80, con i pestaggi della famigerata “cella zero” e con la descrizione delle condizioni di vita disumane (“servizi igienici” in cella, letti a castello a tre piani, viso a 30 cm dal soffitto, l’insopportabile calura dei periodi estivi). Andando avanti nella lettura, ci si rende conto che l’intenzione dell’autore riesce in pieno: la catarsi induce a riflettere sul bisogno di umanità, che poi rappresenta il sottofondo di tutto il lavoro. Per il recupero dei detenuti c’è bisogno, infatti, di una visione differente che porti “dentro le mura” quell’umanità per troppo tempo rimasta fuori.
Risollevare l’attenzione sulla questione carceraria è l’unica via possibile e il testo ci riesce in pieno. E’ necessario migliorare le condizioni materiali di detenzione, garantendo opportunità di lavoro e formazione come elemento fondamentale per favorire il reinserimento sociale alla fine della pena. Il carcere deve “educare e non punire”, dando a chi entra gli strumenti necessari per poter scegliere una strada alternativa una volta fuori. Perché è facile poi cedere al canto delle vecchie sirene, se nessuno ti ha “strutturato” prima. Visto che, oltre l’inferno, “la palla” passa unicamente a loro, agli ex detenuti.
Articolo correlato: incontro di presentazione libro di Antonio Mattone – 18 ottobre 2017.
Photogallery di Raffaele Esposito