PAROLE IN LIBERTA’. Gli uomini di speranza sanno aspettare





«Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere»: mi chiedo, da tempo ormai, se questa riflessione di Papa Francesco, fatta dinanzi a tutta la Chiesa italiana riunita a Firenze nel Convegno Ecclesiale del 2015, sia stata effettivamente compresa.

Certo, ogni affermazione profetica ha bisogno di tempo per essere pienamente accolta, “metabolizzata”: ma qui non si tratta dell’interpretazione visionaria di una realtà futura,

bensì della constatazione di una realtà presente. Recentemente mi hanno molto colpito

alcuni dati riguardanti la Chiesa italiana nel suo complesso, dati che ci dicono che il “cambiamento d’epoca” è ormai abbondantemente avviato. Ad esempio, la frequenza media alla Messa domenicale è scesa al 9,1%, cioè ad appena 2,1 milioni di presenze. Il numero delle parrocchie è passato da 10.045 a 9.936, mentre i matrimoni cattolici sono diminuiti da 42.789 a 38.537. I battesimi sono passati da quasi 168.000 a 159.000, i funerali cattolici da 243.000 a 233.000. Dati impressionanti, ma che non dicono nemmeno tutto.

Per capire quello che è accaduto veramente, in profondità, «basta guardarsi attorno e dialogare con alcuni giovani: le nuove generazioni per parlare, comprendere la propria vita, il proprio mondo, non hanno più bisogno di fare riferimento a Dio. Pensieri, emozioni,

sentimenti, che l’esistenza quotidiana induce, non sembrano portare tracce e rimandi a Dio» (Rocchetti). Ecco, questo forse ci dice di più.

La pandemia non ha certo migliorato la situazione. Chi ha immaginato un risveglio della fede a causa del coronavirus, quasi una sorta di fervore medievale a base di preghiere e celebrazioni in streaming, non ha dovuto attendere molto per la controprova. È bastato riaprire le nostre chiese, e ritrovarle ancora più desolatamente vuote rispetto a prima, vuoi per un minimo ancora di timore di contagio, vuoi per la necessità di diradare le presenze per il distanziamento sociale. E se si vuole veramente vedere, se si è sinceri “uditori della realtà”, si tocca con mano che le risposte ordinarie, quelle che come Chiesa siamo soliti dare -bisogna avviare una nuova evangelizzazione (da quanto lo diciamo?), coinvolgere le famiglie (che sopportano con fastidio, e solo perché costrette per una breve fase, ogni simile tentativo), riscoprire la solennità dei nostri riti liturgici (il cui linguaggio simbolico è compreso solo dai liturgisti) – sono del tutto insufficienti, e persino dannose.

La verità è sempre più quella delineata dal Cardinale Martini: nella storia «non si è mai verificato un ateismo di mentalità e di strutture, mentre oggi costituisce l’atmosfera che respiriamo». Messa così, ci sarebbe da disperare. Ma possono disperare i cristiani, che per definizione sono “uomini di speranza”, sulla scia di Abramo, che “credette, saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rom 4,18)? Io penso sempre che avesse ragione mia madre, che ad ogni difficoltà era solita ripeter che «ogni impedimento è giovamento». E allora, è vero che l’aria che respiriamo è impregnata di ateismo più pratico che teorico, ma sono convinto che tutto ciò può essere persino positivo. Dovremmo cioè prendere sul serio, a tutti i livelli, quanto affermava Simone Weil, che «ci sono due ateismi, uno dei quali è purificazione della nozione di Dio». Se partissimo da questa constatazione, l’opportunità che ci dà il contesto attuale di purificare la nostra fede, forse si potrebbe aprire una via anche nel deserto del mondo di oggi. Se proprio devo pensare, all’inizio di questo nuovo anno pastorale così incerto nel suo sviluppo futuro, ad un obiettivo generale per la nostra Chiesa, non penserei altro che a questo: mettiamoci tutti, come discepoli del Signore, nel cenacolo in ascolto del Signore e in attesa dello Spirito, lasciando che esso distrugga le false immagini di Dio in noi e tutte quelle strutture che si pongono al loro servizio.

Poco concreto? No, è la cosa più concreta da fare oggi, come lo fu agli inizi: «Preghiamo affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi. Con altre parole: noi non possiamo fare la Chiesa… La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. Così gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato: solo Dio può testimoniare che è Lui che parla e ha parlato» (Benedetto XVI).

 

 

 





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