PAROLE IN LIBERTA’. Vivere tra quisquilie e pinzillacchere. La lezione del calcio: impariamo a giocare da squadra





Riportiamo oggi l’articolo di don Pino Natale, pubblicato nel numero di SdT del mese di giugno, in occasione del suo 28° anniversario dell’ordinazione sacerdotale.

 

“Quisquilie, pinzillacchere!”, diceva Totò. Le pensavo, da bambino, parole totalmente inventate, un gioco linguistico, il che è vero solo in parte. Se si riconosce al grande comico napoletano il merito di aver coniato il termine “pinzillacchera” e di averlo introdotto nel linguaggio parlato, “quisquilia” è invece parola reale, di origine latina ed esistente in italiano, con il preciso significato di “minuzia, inezia, cosa di nessun conto” (così il vocabolario Treccani). Ebbene, voglio anche io stavolta trattare di quisquilie e pinzillacchere, in mezzo a fiumi di discorsi giustamente seri e anche un po’ spaventevoli, preoccupati e preoccupanti. Leggerezza contro pesantezza, insomma, piccolezze contro cose importanti, frivolezza contro serietà. Ma se ne sente il bisogno, di riprenderci la vita anche al di là del Covid-19, del dramma collettivo che stiamo vivendo, dell’aria pesante che continuiamo a portarci dentro. “Piccolo è bello”, diceva uno slogan qualche anno fa, e lo trovo vero a tutti i livelli (anche di modello di sviluppo sostenibile: ma queste non sono quisquilie…). Anche perché le cose piccole, le pinzillacchere insomma, non è detto che non contengano grandi insegnamenti. Spesso, anzi, è proprio lì che bisogna guardare per poter penetrare sul serio la realtà. Perciò, questo mese parlerò di sport, di calcio e di storie ad esso collegate. Chi mi conosce sa che mi attrae, mi appassiona, mi affascina. Sono soprattutto le storie “dietro” a nascondere insegnamenti non banali, mai insignificanti. E allora, sotto con due-tre sciocchezzuole, questo mese, lasciando ad altre sedi le cose “serie”.

La prima quisquilia riguarda la scelta fatta da Sky di trasmettere nei giorni della quarantena, per sostituire gli avvenimenti sportivi cancellati, incontri del passato. Così ho rivisto tutte le partite dell’Italia al Campionato del mondo del 2006, quello che vincemmo a Berlino. Rivederle ora, mi ha fatto notare come partita dopo partita la squadra crescesse nella consapevolezza della propria forza e nella capacità di reagire alle difficoltà e agli ostacoli. Quella squadra, partita senza grandi speranze,  fu capace di battere alla fine, una dopo l’altra, Germania e Francia (se ne ricordino Merkel e Macron, l’Italia ce la può fare anche se nessuno ci crede, e può fare meglio anche dei favoriti sicuri di sé), e dopo tempi supplementari molto combattuti, il che vuol dire fatica in più, muscoli indolenziti e tesi allo spasimo, sofferenza reale in campo. Capace di vincere contro tutto e tutti: nella finalissima avevamo contro il tifo dell’intero stadio, dai francesi ai tedeschi arrabbiati neri. Insomma, un bell’auspicio per il futuro, purché si impari a giocare da squadra: cosa che, sinceramente, non mi sembra sia stata capita!

Per par condicio devo ora parlare di Netflix. Solo per consigliare a tutti una miniserie fatta benissimo, molto accurata nella ricostruzione storica (le foto dell’epoca mostrano una sconcertante somiglianza tra l’attore e l’autentico Fergus Suter, il primo calciatore professionistico della storia), capace di miscelare in modo accurato tutti gli ingredienti necessari ad appassionare. Parlo di The English Game, il “gioco inglese”, che è naturalmente il calcio. Ambientata nell’Inghilterra di fine ‘800, mostra la nascita del professionismo, che permette anche agli operai di poter giocare e allenarsi, laddove fino a quel momento il gioco era di esclusivo appannaggio di ricchi aristocratici. Storia vera, che mostra soprattutto come il calcio – ma direi, lo sport in generale – possa diventare strumento di riscatto sociale e di rivendicazione della propria dignità (Pino Maddaloni docet). Ma questo è possibile solo se si impara a giocare secondo le regole (vere protagoniste della miniserie), fossero pure quelle della distanza sociale… Infine, una quisquilia che non è tale, perché parla della morte di uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani: Gianni Mura, il primo tra gli allievi del grande Gianni Brera. Al ginnasio, scelta che fece inorridire la mia prof d’italiano, chiesi in biblioteca i libri scritti da quest’ultimo: non ho vergogna di dire, anzi me ne vanto, che ho imparato a scrivere leggendo libri e articoli dei lombardi Brera, Zanetti, Mura, ma anche dei napoletani Palumbo, Ghirelli e Pacileo. E qui si aprirebbe un capitolo a parte, che riassumerei così: nel giornalismo sportivo da un lato c’era la scuola milanese, che privilegiava il “primo non prenderle” e il catenaccio; dall’altra la scuola napoletana, che privilegiava l’offensivismo e il “primo, segnare un gol in più dell’avversario”. Ecco, la differenza per me è tutta qui: se ne ricordi Feltri.

 





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