Si ha l’impressione che nei nostri tempi sul culto alle reliquie «sia sceso una sorta di silenzio imbarazzante, se non di rifiuto, quasi si trattasse di superstizione o, almeno, di un aspetto di anacronistica religiosità popolare», scriveva Vittorio Messori qualche tempo fa. Eppure, se ci rifacciamo al Vangelo, troviamo dei passi che ci testimoniano chiaramente il valore taumaturgico che viene dato a ciò che può, anche indirettamente, metterci in contatto con chi ha il carisma di guarire. I sinottici riportano l’episodio della donna che soffriva di emorragia e che si accosta a Gesù per toccargli il mantello. Il pensiero che muove questa donna è: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita» e in base a questa fede ottiene la guarigione.
Se questo miracolo può essere interpretato nel senso che la fede della donna è così grande che le basta solo un contatto anche minimo, negli Atti degli apostoli abbiamo invece la chiara documentazione di un uso propriamente taumaturgico dell’oggetto. Leggiamo in At 19, 11-12: «Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano».
Dunque toccare una reliquia, pregare di fronte ad essa significa riaffermare la fede ed impegna alla imitazione del Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto, del cui volto sono immagine luminosa i santi.
Ora, da qui ne deriva un’equazione molto semplice: toccare è comunicare. Talmente semplice che nel nostro linguaggio comune quando intendiamo esprimere la certezza di quel che viviamo spesso diciamo: «vorrei toccare con mano». Mi sembra, quindi, particolarmente importante vivere il rapporto con la “reliquia” tenendo conto della dimensione “comunicativa” del toccare. Questo aiuta a sviluppare la consapevolezza di ciò che avviene nel nostro mondo interiore quando tocchiamo le cose o quando tocchiamo anche l’altro. Scegliere di toccare l’altro, attraverso un abbraccio, una stretta di mano, una carezza, è come scegliere di tuffarsi da un trampolino. Non sappiamo cosa succederà nell’altro nel momento in cui lo toccheremo, ma possiamo prendere consapevolezza di cosa avviene nel nostro mondo interiore quando stiamo per toccarlo, in particolare se ci stiamo muovendo per andare via da una sensazione spiacevole interna o se stiamo toccando l’altro per andare verso di lui. Prendere consapevolezza del perché ci stiamo per tuffare è un passo importante per la costruzione della relazione e dello scambio empatico di vissuti ed informazioni.
Questa dinamica comunicativa va ricostruita anche in relazione alla reliquia. Peraltro essa può rendere particolarmente vicina questa “pietà popolare” al mondo giovanile, particolarmente allenato al “touch”. Si tratta di riportare questa dimensione ad un livello alto. C’è un touch-tatto che è lo sfiorare continuo, a volte compulsivo di uno smartphone, che fa entrare in relazione con una dimensione allargata di amici, o isolare dal mondo che non si vuole vedere; che permette una comunicazione multitasking con singoli e intere comunità di amici noti e meno noti, vicini e lontani; che riduce le distanze e favorisce una proliferazione istantanea di informazioni e contenuti leciti o illeciti, utili o futili, che invia uno smile sorridente, e fa bene, o un video violento, e distrugge. E c’è un touch-contatto che dice relazione, incontro, comunicazione verbale e non verbale, empatia dell’anima, vicinanza fisica.
Una sana e naturale catechesi sulle reliquie favorisce il recupero di questa dimensione del con-tatto che ci aiuta a comunicare senza la polivalenza linguistica: il corpo diventa la tela su cui appaiono le parole giuste. Si tratta di provare, almeno qualche volta, a pensare di meno e a sentire di più.
Doriano Vincenzo De Luca